Trasloco duepuntozero.
Da oggi il blog cambia struttura & grafica: l’indirizzo è sempre lo stesso, lo so http://www.iltriso.it (voi che siete abbonati al feed RSS, sostituitelo con questo http://www.iltriso.it/feed).
Ci vediamo di là.
I social media e le buone maniere.
C’era una volta una parola molto utilizzata online, per tantissimi anni. Quella parola si chiamava Netiquette. Oggi, i social media e la crescente alfabetizzazione degli abitanti del web, sembrano aver annebbiato alcune regole basilari della corretta “convivenza” online. Facciamo così: vi elenco quelli che, in base alla mia esperienza di utente, ritengo essere dei comportamenti sui quali riflettere.
- Se twitti con una frequenza da maratoneta su qualsiasi argomento, non collegare il tuo account Twitter a LinkedIn: il tuo è solo rumore inutile, sono due social network con logiche completamente differenti.
- Se usi Foursquare ed i tuoi geo-posizionamenti vengono riportati su Twitter, fai attenzione. Se sei dal benzinaio potrebbe non interessare a tutti i tuoi followers. La parola d’ordine è *moderazione*.
- Se utilizzi Friendfeed ed i tuoi thread appaiono automaticamente anche su Twitter, stai attento: leggere un quarto di frase senza capirne il senso non mi è per nulla utile. Anzi, è solo fastidioso.
- Se twitto una notizia e dopo 30 secondi la vedo apparire identica sulla mia timeline senza mention, vuol dire che non hai (ancora) capito il vero senso dei social network.
- Se utilizzi servizi che ti permettono di scrivere status con più di 140 caratteri, non c’è problema: devi solo cambiare social network, Facebook ti attende a braccia aperte.
- Se usi Facebook solo per per invitarmi a centinaia di eventi a 800 km di distanza dalla mia città, fai una cosa: esci a bere una birra ed a distribuire volantini dei tuoi party sotto casa.
Come dire, ognuno può stabilire le proprie regole, è anche il bello del web 2.0 (però, visto che abitiamo tutti nello stesso condominio, aiutiamoci).
I bloggers? Si dividono in 5 categorie.
Ormai è qualche anno che lavoro sotto la lente di Internet: ho letto migliaia di post da centinaia e centinaia di blog. Non vi nascondo che mi son fatto una mia (personalissima) idea sulla blogosfera. Dal mio punto di vista esistono 5 categorie ben definite di bloggers :
1. I professionisti
Partiamo da loro, quelli che scrivono per motivi di business: sì, saranno anche appassionati, però ogni post è lavoro e si vede. Ne leggo molti, sia chiaro; in questo caso (molto spesso) il nome fa la differenza.
2. I professionisti mancati
Loro sì, li riconosci subito: scrivono con una frequenza da maratoneta, cercano di arrivare subito dopo le fonti autorevoli americane, provano a strappare un web-gossip da urlo. Ma sono lì, dietro a rincorrere un pubblico che quasi non esiste.
3. Gli esaltati
Per inquadrarli basta buttare un occhio alla grafica o al dominio: il contenuto non merita alcun commento di sorta.
4. Gli appassionati
La categoria che preferisco: mi piacciono anche se i loro post sono pieni di refusi; mi piacciono perché scrivono con la penna della passione, con la testa di chi prova a raccontare la propria esperienza ed il tempo rubato a mille altre attività quotidiane.
5. Quelli che hanno un sacco di tempo
E poi arrivano loro, quelli che ormai si autodefiniscono bloggers: passano ore ed ore sui social network dicendo a tutti “ehi, io sono un blogger!”. Poi vai a leggere il loro ultimo post e trovi l’implacabile data: “Agosto 2007”.
Non chiedetemi di fare nomi, scrivere url o dare un volto ad ogni categoria. So bene la domanda che avete in mente e vi rispondo subito. Facile, incasellatemi nella categoria 6: “non classificabile”.
L’espressione del talento ai tempi del web 2.0
Una delle grandissime particolarità del www è senza dubbio la sua capacità innata di scovare talenti.
La caratteristica che accomuna i talentuosi 2.0 è una sola: l’età. Anzi, l’imbarazzante giovane età.
Non voglio parlare di Zuckerberg, no. Nemmeno dei fondatori di Google.
Parliamo del 19enne che crea nella sua stanza “Youtube Instant“, viene notato da qualcuno che il web lo conosce bene e via, verso nuove avventure professionali.
Proseguiamo con un 17enne che, in un insipido martedì pomeriggio di Settembre, mette in ginocchio Twitter. Senza dimenticarsi di un ragazzotto del 1984 che, un giorno, inventa WordPress.
E sapete meglio di me per quanto tempo potremmo andare avanti citando esempi.
Ma voglio parlare di un’altra caratteristica principale che accomuna i giovani talentuosi: nessuno di loro parla italiano.
Le giornate si accorciano se ti occupi di Social Media.
Per fare questo mestiere non bastano 8 ore al giorno. Non ne bastano nemmeno 9 e forse nemmeno 10. Occuparsi dei clienti, gestire la conoscenza all’interno del tuo team di lavoro, analizzare le criticità e risolverle, svolgere tutte le attività come i Gantt impietosamente ti impongono, seguire le discussioni online, dosare in maniera sapiente creatività e precisione. E’ vero, quasi tutte le occupazioni diverse da quelle 2.0 prevedono un alto livello di complessità, non dico il contrario; chi si occupa di social media, oggi, deve però fare i conti anche con una attività fondamentale per rispondere appieno alla professione: aggiornarsi in continuazione.
Dove si trova il tempo anche per tenersi al passo con le centinaia di novità settimanali che i Social Network & il web 2.0 sfornano senza sosta? E soprattutto, quali sono gli strumenti più efficaci? C’è solo una soluzione, a mio modo di vedere: i feed RSS. Mi trovate imperativo? Trovate la mia risposta in controtendenza rispetto agli ultimi accadimenti?
L’Italia è lo specchio di Facebook o Twitter?
Chiaccherando con colleghi, amici, social-addicted e soprattutto osservando le attività degli iscritti agli svariati social network, ho provato ad immaginare come cambierebbe il nostro Bel Paese se gli abitanti reali fossero (esclusivamente) gli avatar dei vari Twitter e Facebook. Uno scenario ironico e poco serio? A voi la parola.
Se l’Italia fosse popolata esclusivamente dagli iscritti a Twitter, sicuramente NON avremmo:
– Questo governo al potere, ma nemmeno l’opposizione
– la Tatangelo come giurata di x-factor
– gente sobria.
Avremmo invece:
– iPad, iPhone e Mac a go-go
– Una media di libri letti altissima
– Pochissime decine di abbonati a Wired
Se l’Italia fosse popolata, invece, dagli iscritti a Facebook, sicuramente NON avremmo:
– qualcuno che ascolti musica non riconducibile a Ligabue o Vasco Rossi
– individui che leggano libri differenti da quelli di Fabio Volo
– gente interessata a sport diversi dal calcio.
Avremmo invece:
– milioni di fans di Maria de Filippi (e dei suoi programmi televisivi)
– una marea di appassionati a quiz, oroscopi e concorsi
– tonnellate di gente alla quale piace gestire idealmente una fattoria, ma nessuno che maneggi un aratro nella realtà.
Ora capite perché in Italia gli iscritti a Facebook sono 18 milioni?
Il gruppo Coin usa Foursquare: finalmente un caso italiano.
Pausa pranzo in Corso Vercelli a Milano. Raggiungo il mio paninaro preferito, iPhone in mano, mi siedo al tavolo e via con il check-in su Foursquare. Mentre sto per compiere questa geek-operazione ormai quotidiana, mi accorgo di una cosa: c’è qualcuno, in zona, che sfrutta le potenzialità di Foursquare lato “business”. Ma sì, c’è un’offerta per i Mayor e la riconosci dalla dicitura “Special here”.
Curiosissimo, touch sulla bandierina arancione ed ecco l’offerta speciale: Coin, 50 metri al fianco del mio paninaro preferito, regala la CoinCard Easy a tutti i mayor.
Uffici marketing & Web: una relazione complicata.
Qualche anno fa siedevo alla scrivania di un ufficio marketing tradizionale. Relazioni con l’agenzia grafica e con quella che curava l’ufficio stampa, rapporti con la divisione commerciale per “coccolare” i clienti, promozioni, campagne pubblicitarie su qualche quotidiano. Insomma, le classiche attività che oggi definiremmo 1.0. Era il 2001 ed ogni tanto (ma proprio ogni tanto), curavo il sito web aziendale statico e poco funzionale: giusto qualche aggiornamento per far felice qualche cliente più esigente e via, si ritornava alle attività ordinarie.
Con il passare degli anni, ho cambiato uffici, scrivanie e responsabili. Poi è arrivato in maniera prepotente lui, il Web, Internet, il www: una catapulta per gli uffici marketing che, soprattutto nella prima fase, hanno faticato a controllare e gestire. Sapete perché lo dico? Perché su quella catapulta ci son passato anche io.
La new economy ha visto manager (per nulla conoscitori del web e delle sue logiche) disegnare strategie e-commerce e di presenze online a dir poco funamoboliche. Ho visto anche web agency provare a “divertirsi” e testare le proprie capacità sulle spalle di aziende poco informate e strutturare per controbattere ed accorgersi di essere al centro di un enorme test.
Mi vuoi lasciare? Dimmi almeno perché (disse Mark Zuckerberg).
Chissà in quanti di voi hanno pensato di cancellare il proprio account Facebook. Siete tanti, lo so. Ogni tanto è successo anche a me, lo ammetto. Anche perché Facebook non potrà crescere all’infinito, ed alcune news testimoniano le prime battute d’arresto.
Se anche tu hai vacillato al cospetto del social network di Mark Zuckerberg saprai che, nel momento in cui provi a disattivare il tuo account, ti viene richiesta la motivazione: va bene, vuoi cancellarti, ma almeno digli il perché al povero Mark.
Riporto una da una le opzioni che potrai selezionare, con un commento che descrive le verità, a parer mio, nascoste dietro ad ogni scelta:
– Non mi sento al sicuro su Facebook.
Gira gente strana su questo social network, siamo troppi, ed ho accettato amicizie poco raccomandabili. Prima o poi qualcuno mi incastra o viene in casa a rubarmi il computer o la moglie.
– Si tratta di una misura temporanea. Tornerò.
Stai tranquillo Zuckerberg, dammi solo un pochino di tempo. Un mio amico mi ha taggato in una foto scattata durante una festa: avevo detto a mia moglie che quella sera sarei rimasto in ufficio a fare gli straordinari. Dammi il tempo di lasciar sbollire gli animi e torno.
Chiamarsi Google non basta: non siamo più nel 1998.
Per strada, mentre camminavo nei corridoi degli uffici, su Twitter. La domanda degli ultimi giorni era sempre la solita: allora cosa mi dici di Google Wave che chiude i battenti?
Le risposte possono essere tante e di diversa natura, io dico che Wave non è un vero e proprio flop.
Il giochino di casa Google ha aperto le porte (e le coscienze) ad una tematica che necessariamente riaffronteremo prestissimo: la collaborazione real-time. Se per flop però intendiamo decifrare parola per parola quanto detto un anno fa da Eric Schmidt, allora sì. Intanto Google ha assaggiato il mercato, ha lavorato su una piattaforma che riutilizzerà quando esperienze e persone online saranno più mature, ha capito che la mail è troppo viva per essere accantonata; sopratutto BigG ha (ri)scoperto che cambiare gli usi e le abitudini delle persone è difficilissimo. Anche quando si parla di internet.
I veri flop, lì a Mountain View, sono altri: Il Nexus One, ad esempio. Un disastro strategico, un suicidio annunciato: entrare in un mercato, quello della telefonia, solo con la sola presunzione del proprio brand. Non so, è come se Apple lanciasse un nuovo motore di ricerca, come se Coca-Cola pubblicizzasse dei nuovi biscotti, come se Starbucks inziasse la produzione di un vino bianco. A volte si pensa che il web sfugga alle leggi di mercato della old-economy, personalmente non credo sia così.